Perchè mi sono avvicinato all’omeopatia

Due anni dopo essermi laureato ebbi una brutta discopatia con sciatica. I vari specialisti consultati e le svariate terapie fatte non portarono a nulla. Prima di decidermi per un intervento chirurgico mi fu consigliato di andare da un chiropratico, e molto riluttante ci andai. Il risultato ebbe del miracoloso: immediatamente dopo il suo trattamento, il dolore che mi portavo dietro da anni era scomparso, ed in seguito ci fu un miglioramento costante fino ad una normalità che non pensavo ormai più di raggiungere. Capii allora per la prima volta, sperimentandolo sulla mia pelle, che si poteva guarire anche con un altro tipo di medicina. Decisi allora di approfondire un po’ quel vasto campo di conoscenze e di saperi che si cela dietro il nome generico di “medicina alternativa”, in particolare il settore dell’Omeopatia. Da allora, e son passati ormai più di trent’anni, non ho più smesso di studiarla, di praticarla e di amarla.

In questo raccontino, che non ha altre pretese se non quella di far sorridere il lettore, ho descritto un episodio significativo per la mia scelta di dedicarmi all’Omeopatia.

Giovin laureato, pur avendo già deciso di occuparmi di piccoli animali cercavo di arrotondare facendo qualche visita ai pochi, pochissimi animali grossi rimasti in zona. Una dozzina di vecchi contadini era rimasta con qualche vaccherella, ed io, che dei tre esami complementari ne avevo dati per sbaglio quattro perché bischero volevo a tutti i costi Patologia Bovina, ero contento quando mi chiamavano fuori dall’ambulatorio per andare in campagna. Sapevo che sarebbe stato per poco ancora, poi non ci sarebbe stata più l’occasione. E dire che i vecchi veterinari mi dicevano che nel dopoguerra c’erano almeno quattromila vacche nel comune, e che correvano dalla mattina alla sera a piedi, in bicicletta, in moto.

Poi, una notte di febbraio, verso l’undici e mezza suona il telefono.

Gute Nacht, Rrobbetto, qui Humbert”. No, maremmamaiala, questa ‘un ci voleva, non stanotte che da noi ‘un nevia mai, e ieri aveva neviato un fottio. Porcaloca, Humbert. Sta a vedè che mi tocca andà lassù.

Era apparso dal nulla un sei mesi prima, lui e compagnia bella. Stavo visitando in ambulatorio quando sento entrare qualcuno in sala d’attesa. Continuo tranquillo a fare quel che facevo, e dopo un po’ sento che l’aria cambiava. Un odore strano, un afrore, un che di stallatico, d’ircino, di fieno marcio. Sarà passato nella piazza il camion della mondezza, chissà, e apro la finestra. Dopo un po’, faccio entrare. “Prego, accomodatevi”, e mi viene un conato dal puzzo che c’è in sala d’attesa. Riapro gli occhi e vedo davanti a me, seduto con dignità e compostezza, l’Ultimo Figlio dei Fiori. “Pace a te, fratello” mi fa con voce bassa e dolce dall’accento tedesco, e si alza snodando la sua dinoccolata persona. Altissimo, magrissimo, capelli lunghi con coda di cavallo, una venerabile barba grigia e bianca a mezzo petto, due occhietti vispi dietro gli occhialini alla John Lennon, un gran nasone. Camicia sbrindellata, gilet di cotone grosso, due piedacci callosi dentro scarpette da tennis aperte in cima. Praticamente identico a Panoramix, il druido di Asterix. Farfuglio qualcosa e lo faccio passare, tirandomi rispettosamente indietro per ammortizzare un po’ meglio quell’odore incredibile. Quasi danzando entra in sala visite e si riaccoccola sulla sedia davanti alla scrivania, mi fa un gran sorriso ed inizia a parlare con quella voce calma calma, quasi femminile. “Afere bisogno di te feterinario, ja. Noi qui da poco poco tempo, ma afere bestie, ja. Fenire da Austria, Suisse und Deutschland, tanti noi e tante bestie, ja. Noi già curare loro, noi fare tutto noi, ja, mit Homöopathie, do you understand?” No, capivo il giusto, ma dopo un po’ iniziavo ad avere il quadro della situazione. Dunque, Herr Humbert si era trasferito dalla natia Austria con un gruppo di una ventina di amici svizzeri, tedeschi ed olandesi sulle colline nostre, prendendo dei vecchi casolari e tenendo un discreto numero di vacche e di capre, asini, galline, cani, gatti et similia (ora mi spiegai l’odore, era caprone!). “Noi fare tutto noi, ma certe volte afere bisogno di feterinario, ma solo poche poche folte … io fare Omeopatia, tu sai Omeopatia?” No, mi dispiace, non ne sapevo niente (i suoi occhi si rattristarono in un sacco di rughette, ed emise un flebile “oh” di disappunto). Figuriamoci se sapevo qualcosa dell’Omeopatia, che roba era? L’unica cosa che sapevo era che nella fornita libreria della clinica di Firenze che avevo frequentato c’erano due libri con la copertina rossa di Omeopatia Veterinaria, che avevo sfogliato un paio di volte nell’orario di chiusura (restavo a seguire gli animali operati), c’erano scritte cose assurde in un linguaggio da iniziati, follia pura, e l’autore era pure un collega toscano, ma và, se ‘un son matti ‘un ci si vogliono…diamo un’occhiata a ‘sto librone americano che è meglio, ‘sto Kirk… e poi ‘sta nova associazione, la…come si chiama diobono…SCIVAC, che mi ci sono pure iscritto, fra un po’ fa un congresso, vediamo che c’è… Dunque, Herr Humbert mi proponeva di seguire i loro animali ma soprattutto per le urgenze, si diceva discretamente esperto avendo bestie da tanto tempo, poi l’Omeopatia eccetera eccetera (aveva un diploma di Heilpraktiker nel suo paese, un naturopata insomma), se poi avevo la bontà di dir loro la “purocrazia”, cioè contatti con l’USL e così via. “Noi pagare, pagare” e così dicendo tirò fuori dalle tasche due rotoloni stile gangster di vecchie banconote, accuratamente stretti da un laccio di pelle.  Strabuzzando gli occhi, dissi che sarei andato da loro dopo un paio di giorni, per l’onorario ci saremmo messi d’accordo, dove stavano? “Arrivi su Pianacci, poi prendi strada per Malo-oculo…” “Forse Malocchio, vero?” “Sì, Malo-oculo, poi quarto stradelo a sinistra, giù giù giù, ancora giù e poi casa, cativa strada, ma arrivi, arrivi…” Deglutendo, mi figuravo l’itinerario, da ragazzo c’ero passato qualche volta con Bibo, mitico cocker di quegli anni felici di camminate infinite. Strada in salita con più curve d’una biscia, poi una specie di altipiano, strada non asfaltata verso Malocchio (nomen omen, qualche tempo prima resti di festino satanico) e poi giù a capofitto nel bosco… Salutando cerimoniosamente, danzò fuori con grazia. Mi precipitai con lo stomaco rovesciato a aprire tutte le porte e le finestre. Pecunia non olet, ma i proprietari sì.

Due giorni dopo, a metà mattinata di una calda giornata di prima estate arrivai nell’aia di quella vecchia casa poderale. La vecchia 500 blù decappottabile aveva ululato con coscienza, ed ora si spense con un sospiro di soddisfazione per il lavoro ben fatto. Bel posto, forse con il bosco un tantinello a ridosso, la casa poco più di un rudere. Scendo allegro ed urlo: “Ehi, c’è nessuno?”  Silenzio.   “C’è nessunooo?”  Silenzio. Un attimo dopo ero circondato da tre cagnoni che si scompisciavano con aria implorante ai miei piedi, sbucati dal nulla in silenzio, e con un’aria strana che sembrava mi dicessero “Sssh, piano, piano…che è ‘sto ‘asino?” Belle bestie, simpatiche, probabili bastardi di Bovaro Bernese. Poco dopo s’erano aggiunti un numero indefinito di gatti gatte gattoni micetti che ronfavano allegri serpeggiando fra le gambe. Ma a parte un giovane gatto che poco educato emise due fiochi miao miao, silenzio assoluto. Mi guardo attorno, nessuno. Gironzolo per l’aia, giù sotto nei campi mezz’incolti nessuno, dalla parte opposta alla casa una stalla. Mi c’affaccio, e vedo un bovino di razza sconosciuta, piccolo, grasso e lustro, praticamente un cilindro ed evidentemente femmina per due tette mostruose, che si volta sorridendo, e mi fa “Ciao, ‘mmbé ?”. Richiudo piano piano, impressionato dalla visione, soprattutto dal fioccone rosa sulla coda, ed anche dall’odore sontuoso del fieno.

Riattraverso l’aia, vedo una porta sbilenca socchiusa, e mi decido ad entrare. Sussurro un “c’è nessuno”, ed apro. Il ganghero stride inopportuno, sul vecchio pavimento di cotto s’allunga una striscia di sole, ed infine capisco. Prima con l’olfatto. Senz’altro afgano, di quello buono. Poi con la vista. Herr Humbert sta dormendo il sonno dei giusti, a pancia all’aria su un divano letto, ‘gnudo come mamma lo fece, con accanto un esemplare umano prono, femmina, similmente ‘gnuda e dormiente, di età imprecisata ma con natiche cospicue e pudenda depilate, che stringe teneramente il caprone laddove Madre Natura l’ha dotato con generosità. Vedi a proposito il Decameron, quinta giornata, novella quarta. Nella stanza dietro, al di là di una porta vedo altri letti, ed altri corpi discinti. “La pace sia con voi, fratelli e sorelle” mormorai, e chiusi l’uscio. Tolti cinque o sei gatti dalla 500, la misi in moto, ed invece dei suoi soliti starnuti partì con un fruscio. Niente evidentemente doveva turbare l’aura di sacralità che emanava dal posto in quel momento.

Dopo qualche giorno eccolo riapparire, lievemente contrariato perché non ero andato da loro. Spiegata la cosa, intedescò qualcosa sulla festa di mezza estate e San Giovanni, ma in cuor mio era già ampiamente giustificato dai fatti. Così andai lassù il pomeriggio dopo, e li trovai tutti vispi e svegli. Oltre lui, che identificai subito come il capobanda, c’era una femmina, avrà avuto una cinquantina, piccola e rugosa, ma con un corpo ancora ben fatto e sodo che traspariva dal vestitino di cotonina indiana, e che evidentemente avevo già sbirciato. Mi offrì subito una delizia a base di succo di sambuco che trangugiai estasiato (solo in seguito seppi che non avevano acqua corrente e che la prendevano da una polla nel bosco; e del resto vidi presto che non avevano neppure l’elettricità, in compenso c’era da poco il telefono). Mi presentò poi agli altri componenti, alcuni ragazzoni, belle fanciulle dai capelli lunghi, un paio di anzianotti, dei pampini, tutti con nomi stranieri o indiani. E tutti con un’aria serena e contenta. Mi disse che erano tutti vegetariani, che coltivavano da sé tutto quello che mangiavano, che alcuni erano insieme da molto tempo, altri s’erano aggiunti ora, altri stavano sparsi sulle colline, altri andavano e venivano dai loro paesi dove facevano qualche lavoretto. Insomma, una perfetta comunità hippy, già fuori dal tempo anche per quei giorni. Poi mi portò a vedere i miei futuri pazienti. La vacca era di razza Jersey, veniva chissà come dalla Scozia, faceva un latte molto ma molto grasso ed era riverita come una santona indù (con tanto di fiocchetti sui riccioli della testa oltre che al ciuffo della coda). Attaccato ad un chiodo nella stalla c’era una stampa, non il solito Sant’Antonio Abate dei miei vecchi contadini che ancora oggi tengo devotamente attaccato in ambulatorio, era non so quale benefica ma deforme divinità orientale. Completava il tutto una radiolina che a basso volume diffondeva una monodia. “Radio Krishna, Radio Krishna, musica buona… più latte, più felice … Are Krishna Are Krishna Are Are… tu ascolti, vero ?”. No, avevo altri gusti musicali. “Ja, ja …ora federe capre, aspetta qui preco”, e mi portò dietro la casa all’imbocco di un viottolo che saliva erto, proprio dove partiva la scala che portava al piano sopra. Lui e un altro si infrascarono nella macchia e dopo un po’ sentii lontano una ridda di berci e di fischi, e diversi belati. Mi misi seduto sull’ultimo scalino, ed aspettai. Simpatiche, le capre, casiniste ma simpatiche, tutta un’altra cosa rispetto alle peore; e poi da noi ce n’erano poche, giusto i Giannini delle Pracchie ce l’avevano, bestiacce ossute, foreste e salvatiche. Ero lì che stavo pensando che razza di capretta sarebbe spuntata dal viottolo e m’immaginavo certo qualche gentile bestiola stile Heidi, vivace ma graziosa, senz’altro permeata della serenità dei proprietari, quando, insieme all’avvicinarsi delle urla e dei fischi, iniziò un tremotio di frasche, un abbattersi di rami, ed il suolo iniziò a tremare.“Marianna’ane c’hanno anche dei ‘avalli”, e mi misi in piedi. Un attimo dopo comparve fuori dalla macchia in cima al viottolo una creatura mostruosa, bianca come la neve, enorme come Moby Dick, un centauro con la stessa barba di Humbert, che si fermò un istante, mi guardò sprezzante dall’alto in basso e si precipitò a capofitto giù a testa bassa seguito da un’orda infinita di altri diavoli bianchi. Fortuna che m’ero messo in piedi. Riuscii a salire incespicando quei sette o otto scalini, raggiunsi la porta, l’aprii e mi fiondai dentro sbacchiandomela dietro. Mi c’appoggiai e subito dopo si scatenò un bussio di ‘olpi che fra un poino la sfondavano. Dopo un po’, le urla di Humbert, e poi scalpiccio di zoccoletti giù dalle scale, infine il silenzio. “Scusa, perché tu entrato, preco ?” fa una voce un po’ incazzata dietro di me. Mi giro e vedo una meraviglia di tedeschina che si tappa con le mani quello che riusciva a tappare, ed era poco perché c’era troppa area cutanea da coprire. “O che vanno sempre ‘gnudi questi qui ?” penso, e incomincio a spiegare affannato il come ed il perché, quando un’attimo dopo entra Humbert, ricoperto di foglie e di rametti, ridacchiando compito “Ih, ih, ih” e mi spiega che le sue adorate capre di razza Saanen sono un po’ vivaci, ma in fondo tranquille, buone bestie, ja. Solo il becco un po’ agitato, troppe donne ih ih ih. ‘Fanculo, fra un po’ mi sbranava tutto, quel satanasso grosso come un vitello. Salutata cortesemente la gentile signorina, che nel frattempo si stava vestendo offrendo altri ampi squarci di cute, un po’ stralunato me ne andai dietro a Humbert. Quella sera restai a cena con loro, e notai subito con piacere che pur essendo vegetariani non erano affatto astemi: i fiaschi di vino giravano come trottole. Ogni tanto poi qualcuno s’alzava e si metteva a soffiare in un corno di montone, e dopo un po’ si sentiva lontanissimo un gemito uguale dalla collina di fronte … comunicavano con un distaccamento della combriccola, mi dissero. Non ricordo con esattezza quello che mi propinarono, anche perché a fine cena iniziarono a passarsi l’un l’altro dei grossi oggetti conici bianchi e dal fumo intenso; comunque tutti piatti buonissimi di cucina tedesca o indiana, c’era anche un tortino a base di funghi che mi insospettii un po’ perché non riuscendo a tradurmi dal tedesco il nome di quei funghi mi dissero che aveva a che fare con das Tod, la Morte… digerii e dormii benissimo.

“Humbert ! Che è successo ?” farfugliai tutto rincoglionito. “Gigì, la vacca, s’è rotta un corno, ja, molto molto sangue, ja, vieni subito su, SUBITO !”. “Parto subito, un po’ di tempo ci vorrà, intanto cerca di fermare l’emorragia…” e non so come mi venne in mente un vecchio libro di patologia bovina che mi aveva prestato un collega in pensione con un disegno di una fasciatura ad otto fra i corni, che provai a spiegare all’affranto vecchio hippy. Raccattai alla meglio l’armamentario necessario, praticamente un piccolo ospedale da campo, mi imbottii di vestiti e via nella notte. Notte di luna piena con qualche nuvola, limpida che ci si vedeva a giorno. Freddo cane, ma niente vento. In piano la neve non c’era più, ma già a mezza costa ne restava abbastanza, però la strada era sgombra e s’andava tranquilli; ovviamente non avevo le catene, non avevo chiesto com’era la situazione lassù, e se poi dovevo metterle sarei arrivato il giorno dopo. Anche la strada sterrata per Malocchio era discreta, tutta buche e fango, ma s’andava, a pezzi e bocconi e un po’ slittando sulle curve, ma s’andava. Vedere poi il bosco innevato alla luce dei fari era fantasmagorico. Intanto dentro di me rifrullavo cosa avrei potuto fare per quell’emorragia, non doveva essere uno scherzo con quei tubi d’arterie, e mi fidavo il giusto di quel libro di cinquant’anni prima. Clampare, suturare… vedrai che casotto mi ritrovo. Alla fine trovai quasi per caso la deviazione sulla sinistra, c’era una curva un po’ a gomito e leggermente in salita e lì, urlando come un’aquila ferita la 500 entrò in una buca enorme piena di fango, e lì rimase. Non ci fu verso: retromarcia-avanti-retromarcia, sterza, nulla. Affondata. Dopo qualche minuto di tentativi, e una serie di moccoli che vedevo far spengere una ad una le stelle del firmamento, mi rassegnai. Ero lì, e lì la 500 restava. Trent’anni fa non c’erano i cellulari per chiedere aiuto… M’infilai gli stivali di gomma, sguazzando andai all’altro sportello per scaricare borse e zaino, m’infilai un’impermeabilone di tela gommata che m’arrivava ai piedi, passamontagna e via. Ci si vedeva benissimo, meno male perché la pila era rimasta a casa; unico rumore nel silenzio la neve che crocchiava sotto gli stivali; a parte la sfavatura iniziavo a pensare che la storia stava prendendo un certo fascino. Avrei dovuto camminare per un paio di chilometri, ma ero in forma e lo zaino strapieno e i due borsoni uno per mano non mi creavano granchè problemi. E poi, vuoi mettere che anche Herriot s’era ritrovato in una situazione simile. E giù per lo stradello di buon passo, che dopo un po’ nonostante il freddo boia iniziavo a sudare. A un certo punto una nuvolaccia parò la luna, ma ormai gli occhi s’erano abituati, rallentai solo un po’ per non scivolare, s’era al pezzo più brutto della discesa. Lì lo stradello da sterrato passava a lastricato a sassi, resti di chissà quale strada, ed era come racchiuso dai lati da due alti cigli murati a secco che la seguivano per un bel po’, con in alto rovi e sterpaglie. Non doveva mancare tanto, mi sembrava che dopo quel pezzo di discesa ci fosse l’ultima serie di curve nel bosco. E proprio lì, accadde. In alto, proprio sopra la mia testa a destra, uscì un ringhio profondo. E cattivo. Mi girai d’istinto con un salto di fianco, restando impietrito con le braccia in alto con le borse. Ma non si vedeva niente, era oltre le frasche. Lì sopra c’era un cane, e senz’altro di quelli grossi a giudicare dal tono, che m’avrebbe attaccato. Perdio, lupi da noi, almeno allora, ‘un ce n’ erano… Rimasi lì impalato, pronto a vendere cara la pelle, qualche borsata l’avrei data, e sempre quel ringhio continuo, con qualche bù in tono basso prima di riprender fiato. Sarà stato sopra a tre o quattro metri, ma non vedevo nulla. Ma c’era, e come se c’era, stronzo d’un cane. Difficile dire quanto tempo rimasi lì con le braccia alzate con le borse, cinque minuti, dieci, un’eternità aspettando che mi saltasse addosso. Mi resi anche conto che gli sfinteri prima avevano ceduto. Poi le braccia mi s’intorpidirono, iniziai ad abbassarle e feci un passo, uno solo, in discesa. Si scatenò l’ira di dio. Dal ringhio si passò a dei WUF BUF WUF tremendi con uno gran scatenio di frasche. Mi venne d’abbassarmi, con le borse sulla testa. Eccolo eccolo! Non successe niente. Dopo un attimo silenzio assoluto, poi un gran rumore di rami in alto, m’accorsi che risaliva di corsa lungo il sopra del ciglio. Mi alzai girandomi indietro per seguirlo, per un pezzo lì in alto c’erano frasche e non vedevo niente se non il movimento della vegetazione. Poi, in fondo dove questa finiva, in alto, comparve illuminato dalla luna sbucata fuori. Maremmano, maschio, cinquanta – sessanta chili. Fermo immobile come una statua. Coda ritta sopra la schiena. A venti metri. Da lontano il solito ringhio basso. Ora si butta e mi viene di corsa incontro, lì ‘un ci son le frasche. Rialzai le borse. Di scappare neanche a pensarci. Ora viene ora viene oravienemaremmatroia. Niente, lì fermo immobile, il solito ringhio basso continuo cattivo. E io lì fermo. Dopo un po’, faccio un passo indietro. Niente. Poi un altro. Niente. Due passi, niente, sempre lì fermo lo stronzo. Pianin pianino, e all’indietro, feci tutto quel pezzo fra i cigli, borse in alto cuore in gola intestino in peristalsi sfintere strinto. Poi c’era una curva, e lo persi di vista. Ora lo stradello continuava nel bosco, e sempre all’indietro ne feci un bel pezzo, sempre vedendomelo comparire all’improvviso dagli alberi saltandomi alla gola. Ma non si fece più vivo. Passo dopo passo, praticamente sempre girato indietro, pieno di sudore diacciato addosso, affannato e con i brividi finalmente intravidi fra gli alberi un lumicino (sì, proprio come nelle fiabe, cavoli) e dopo un po’ arrivai alla casa. Lì fuori c’era Humbert che era uscito ad aspettarmi con una lampada a petrolio in mano. Battendo i denti iniziai a spiegargli che m’era successo, ma prima di finire dovetti chiedergli se mi facevan bere qualcosa di forte. Entrato in una cucina illuminata dal caminetto e da un’altra lampada a petrolio, stappò una bottiglia di non so quale loro liquore di susine, ma mentre me ne stava versando si fermò all’improvviso e alzò il nasone verso di me fissandomi severamente: “Rrobbetto, tu pestata caccacane, ja !”. “Ja, Humbert, ja, scusami ma fuori non si vede un accidente…”. “Ach, dopo tu pulire stivali, ja…” Bevuto un bel po’, ripresi a raccontare, e man mano che andavo avanti vedevo che iniziava a sorridere, poi riducchiare  “Ih, ih, ihihihihi !”, poi si mise a sedere piegato in due dalle risate “UahUahUAHHH”. Con le lacrime agli occhi mi spiegò fra un cachinno e l’altro che sì, il cane del loro vicino era molto cattivissimo, ma che in cima al ciglio, oltre le frasche, c’era una rete che lui non poteva saltare e che dal basso di quel pezzo di stradello non potevo vedere da lontano di notte. Maremmamaiala, m’ero caato addosso per nulla. Mi misi a sedere, tanto ormai avevo perso ogni dignità per quello che succedeva in quella parte del mio corpo a contatto con la sedia.

Ripresomi un po’, feci per prendere borse e zaino, ma Humbert mi fermò un attimo prima di uscire: “Rrobbetto, sai, emorragia non più…belo no?” “Bravo Humbert, sei riuscito a mettere una fascia in quel modo?” “Nein, nein, mit Homöopathie, io stupido, dovevo dare subito Omeopatia, ja, poi chiamare te !” “Fammi capì, Humbert, vuoi dire che l’emorragia s’è fermata dopo che l’hai dato quella tu’ roba?” “ Ja ! Tu no credi, ma così è certissimo !”. Ora, non avevo mai visto un’emorragia da un corno rotto, ma mi ci voleva poco ad immaginare quanto fosse abbondante…e comunque mi dissi che anche le emorragie arteriose possono fermarsi spontaneamente… raramente. Uscito fuori, rabbrividii per il vento che s’era alzato, e seguendo Humbert e il suo lume mi resi conto con raccapriccio che era vestito esattamente come l’estate scorsa, con tanto di ditoni di fuori dalle scarpette da tennis aperte in cima. In più aveva solo una ciarpina di lana sotto la barba. Tutta salute, dissi. “Preco pulire piedi per entrare” mi fece osservare, così mi misi a scalciare coscienziosamente sull’erba dell’aia. Dentro la stalla illuminata da due fioche lampade a petrolio c’era un bel teporino. La Gigì era attorniata da tre o quattro donne che la stavano ripulendo dal sangue canticchiando una nenia, sangue che imbrattava anche buona parte del muro davanti alla posta. “La miseria, che macello !” dico a voce alta. “Shh, piano, piano” mi fa una ragazza “adesso è tranquilla, lei molto terrorizzata, ora bene. Ma non spaventare, lei paura !”. Con deferenza mi avvicinai alla sensibile creatura sacra. Stava biasciando tranquilla e beata, e il corno era tutto penzoloni attaccato solo per una striscetta di cute. Il vivo del corno era tutto coperto da un grosso coagulo, ma l’emorragia era senz’altro fermata. Che culo. Se c’era un’emorragia col piffero che sarei poi riuscito a fà qualcosa con quella luce. Un colpo deciso di forbice, che provocò gridolini di spavento da parte di tutti gli astanti, aspersione di non mi ricordo più quale polvere antibiotica, e poi mi esibii nella famosa fasciatura ad otto. Con i fiocchetti rosa che spuntavano sotto il risultato era clamoroso, ma non si poteva ridere, la divinità avrebbe potuto adombrarsi. “Rrobbetto, tu pestata altra caccacane, ja !” mi fa indignato Humbert. “E che cavolo, Humbert, ma pulitela l’aia, con tutti i cani che c’avete! Dimmi piuttosto, com’ha fatto la Gigì a rompersi il corno?”. Era andata così. Davanti alla posta della vacca c’era una finestrella, sotto la quale all’esterno erano state messe delle scatole di bottiglie vuote impilate una sopra l’altra. “Io preparare miei rimedi io, ja, quasi tutti, secondo metodo preciso di Hahnemann” (e questo chi è ?) “diluizione, succusione, diluizione, succussione…” (ma che piffero dice ??) “… tante tante volte, e afere bisogno tante tante bottiglie…”. Era successo che probabilmente due maschiacci di gatti in fregola s’erano azzuffati proprio lì sopra, avevano rovesciato una valanga di bottiglieria e il casino immane aveva turbato l’animo sensibile di Gigì che, miracolo non le fosse scoppiato il cuore, aveva strappato la cordicella della posta e s’era messa ad arrampicarsi sui muri e a dare cornate per ogni dove per darsi alla fuga da quell’ira di dio. “Molto impauritissima, ja, ha visto das Tod in faccia, poferina. Sangue schizzava come pompa, pscc pscc pscc…” (cavolo era proprio partita l’arteria allora) “…classico caso di Aconitum, ja ! ” (ma che roba è ???) “…poi dato sopra tintura madre di Iperico diluita…”.

“Senti, Humbert, io bisogna che vada via, son le tre passate, ma non so cosa fare per la 500, fra l’altro ostruisce lo stradello, bisogna che mi diate una mano a spostarla, che si può fare ?”. Corrucciò la fronte, pensò un attimo, poi “No problem, Rrobbetto”. Entrò di corsa in casa, incominciò a urlare secchi comandi, fioche luci si mossero da una finestra all’altra, e dopo un po’ sette massicci giovanotti erano lì davanti a me tutti insonnoliti. Quello più vestito aveva un maglione di lana. Humbert intanto s’era messo ai piedi scalzi un paio di stivaloni di gomma (io avevo i piedi gelati con due calzini di lana), ciabattò di corsa dietro casa, si sentì un motore tossire e poi partire, ed ecco comparire sull’aia uno schioppettante van T2 Wolkswagen, giallo con decorazioni floreali sulle fiancate, degna vettura della generazione perduta degli anni sessanta, compagno fedele di chissà quali stralunati viaggi. Ci s’ammucchiò tutti dentro, e a gran fatica si fece la salita al ritorno. Dopo un po’ Humbert si gira lentamente verso di me, e con aria addolorata mi fa: “’Ccipicchia, Rrobbetto, hai pestata altra caccacane !”. Mi limitai ad un sorrisetto ebete. Poi si mise a parlare tutto allegro di calcio, di cui si disse sfegatato tifoso. Quando s’era al punto dove avevo incontrato la bestiaccia, rieccola comparire dalle tenebre come un fantasma bianco urlante rabbia. Tirai giù il finestrino, sporsi il braccio e misi l’altra mano nell’incavo del gomito. Tiè, stronzomaledetto. Ma i germanici, non notando la finezza dell’italico gesto, apprezzarono comunque l’entrata d’aria gelida: sentii infatti da dietro: “Caccacane, puuh puuh!”. Arrivati alla 500, fu un’attimo: tre di loro da una parte, tre dall’altra, uno davanti e uno dietro, e a forza di scossoni, spinte e ondeggiamenti ruotarono la 500 su se stessa e la misero col muso nella direzione giusta, una spinta sull’asciutto, ed ero già in macchina.

 

Trovai mia moglie in cucina tutta preoccupata: “Roberto, ch’è successo? Come mai hai fatto così tardi? Ma, ma… ma Roberto, hai pestato una cacca di cane !”. Mi misi seduto, ed iniziai a ridere.

 

Un anno dopo questi fatti mi ero iscritto ad una scuola di Omeopatia Veterinaria. L’autore di quei libri con la copertina rossa divenne mio maestro. Da allora l’Omeopatia è entrata nella mia professione e nella mia vita, cambiandole profondamente.

Humbert dopo qualche anno si trasferii; prima di partire mi lasciò quello che è stato il mio primo Repertorio del Kent, con alcune sue annotazioni, e che conservo gelosamente. E’ il mio repertorio, anche adesso che adopero tutti i giorni le moderne versioni computerizzate. Tempo addietro per caso mi trovai a cena accanto a un collega dell’Appennino forlivese, e chiacchierando venni a sapere che ora Humbert risiede dalle sue parti, si occupa con successo di agricoltura biodinamica, è sempre il solito e che la gente viene da lontano per vederlo giocare a pallone nella squadretta del posto. Coda di cavallo, barbone al vento, gambe ossute fuori dai pantaloncini e … scalzo.